« Ad un tratto la verità brutale ristabilisce il rapporto tra me e la realtà. Quei nidi di vespe sfondati sono case, abitazioni, o meglio lo erano. » Descrisse bene Moravia la morte di quel Sud che già era stato pianto nella diaspora contadina da Levi a Rocco Scotellaro, l’acuto e indimenticato intellettuale lucano. Era passati solo quattro decenni, o meno, e il sud della “questione” venne scosso dal sisma del 23 novembre del 1980. Alle 19,34 le abitudini e la vita di milioni di cittadini di Campania, Lucania e di Puglia inziarono una percorso ostico e differente, tra cumuli di archeologia moderna e reliquie della sussistenza quotidiana. Il terremoto scosse.
Passò ma non trascorse, provò duramente, ma tenne fraternamente uniti le genti. Gli italiani provarono per la prima volta la solidarietà globale, una gara di generosità che rianimò e confortò intere comunità sparse tra roulotte e prefabbricati pesanti. Non trascorse subito quel sisma, affatto. Ancora oggi persistono, nel dilaniato sud, interi quartieri di prefabbricati leggeri, villaggi “sgarrupati” avvolti da fibrocemento e vergogna. La politica non ha voluto, lasciando alle nuove generazioni l’icona degli “sfollati permanenti”.